Pubblicato da: rolandociofi | 17 ottobre 2011

Etnopsicologia, etnopsichiatria e l’idea dell’Altro di Fatos Dingo

Le società multietniche e multiculturali che si profilano con sempre più insistenza nel mondo moderno rappresentano una realtà che necessita di una più consistente risposta da parte della psicologia e delle scienze affini.

L’occasione d’incontro con il diverso si presenta sempre più frequente, causando così l’urgenza di creare una rappresentazione mentale dell’altro.

Il concetto dell’altro, dello straniero, del diverso da “noi” è come un Giano bifronte che lega l’idea del simile con quella del dissimile. La rappresentazione mentale che viene costruita intorno a questo concetto, individuale o collettiva che sia, in precisi momenti storici può creare incertezza e inquietudine e oscillare tra due opposti.

“Non sono come noi!”.

Davanti al forestiero, all’altro, al diverso si esprime questo inquietante luogo comune il quale si aggrappa solo a un lato della rappresentazione mentale dell'”Altro”, a quello della diversità. Dall’altro lato, è riduttivo negare la diversità e adottare l’estremo opposto della rappresentazione, quello dell’identità e dell’universalismo. Il tema del forestiero, per la delicatezza e la complessità che presuppone, non può assolutamente essere lasciato in pasto alle discussioni emotive di piazza. La presenza degli stranieri in Itali come in tutta l’Europa e oltre è diventato un fenomeno che richiede una considerazione non solo politica e amministrativa ma soprattutto un trattamento scientifico da parte di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, sociologi, antropologi ecc.

La diversità non è un fenomeno da nascondere e neanche da livellare dentro il cosiddetto “villaggio globale” e senza frontiere. La diversità potrebbe diventare ricchezza.

L’idea dell'”Altro” che in questo caso viene costruita intorno allo straniero non rimane isolata nei limiti dall’antropologia ma passa alle discipline cross o interculturali; essa ispira la filosofia della mediazione culturale, dell’operare nelle strade delle metropoli dove si trovano emarginati culturali o sociali e infine diventa indispensabile per chi deve diagnosticare e prendere in carico le persone appartenenti a un’altra cultura e che presentano psicopatologie.

La collaborazione interdisciplinare tra psicologi, antropologi, filosofi, storici ecc. diventa necessaria quando si tratta di temi così complessi come cultura, etnia, cioè in altre parole quando si tratta dell’altro, del diverso.

La parola Volkerpsychologie o Folk Psicologie è stata coniata in Germania nella metà del secolo XIX per indicare lo studio delle relazioni che esistono tra le caratteristiche morali, mentali e intellettuali di diversi popoli, etnie e culture. Il concetto veniva riusato da parte di W. Wundt con significato di studio dello sviluppo mentale generale dell’essere umano, cioè di un’indagine integrata dei fattori costitutivi della cultura di un’etnia o di un popolo: lingua, religione, miti, morale, costumi ecc. tramite metodi psicologici, filologici, storici e antropologici. Oggi questa indagine viene svolta da diverse discipline quali la psicologia culturale, la psicologia transculturale o crossculturale, l’antropologia psicologica e l’etnopsicologia.

La stessa filosofia ispira l’altra disciplina della salute mentale, l’etnopsichiatria o la psichiatria transculturale che potremmo fare risalire a Kraepelin (1904) il quale all’inizio del secolo delinea una nuova disciplina chiamata psichiatria comparata. Krapelin era convinto che i fattori socioculturali svolgono un ruolo importante nella genesi di diverse psicopatologie.

La preoccupazione di Kraepelin era identificare e spiegare il legame che esiste tra disturbi mentali e le caratteristiche etniche e culturali dei diversi popoli. Con l’etnopsicologia e l’etnopsichiatria, etnia e cultura, concetti tradizionalmente centrali per l’etnologia, l’antropologia e le scienze storiche e culturali, diventano importanti anche per le discipline della salute mentale.

Etnia e cultura trascinano dietro di sé altri concetti come stato, popolo, nazione. Il significato diventa sempre più ingarbugliato con l’aggiunta di definizioni e teorie e con l’aumento dei contrasti teorici si perde l’importanza euristica e pratica dei concetti.

La rappresentazione mentale dell’altro che ogni collettivo crea serve a condensare e semplificare tutti questi concetti e viene usata come guida comportamentale in occasioni di incontro.

Secondo la psicologia dei popoli di Wundt, la motivazione di relazionare e di conoscere sembra essere un meccanismo psicologico universale indipendente dal tipo di cultura o dal momento storico. Perciò sembra naturale che ogni individuo, collettivo, gruppo sociale o popolazione crei necessariamente una rappresentazione mentale, collettiva o sociale dell’altro da sé, del diverso.

Questo tipo di rappresentazione ha un’importanza fondamentale per l’identificazione del tipo di comportamento adatto da assumere in diversi momenti spazio-temporali nella rotazione dei ruoli tra “noi” e l'”altro” (“A Roma come i romani”).

Il contatto con il diverso e la soluzione dei problemi che possono presentarsi dall’incontro con l’altro richiedono conoscenze antropologiche, psicologiche, prossemiche ecc. Queste conoscenze, diversamente da quelle accademiche, vengono prodotte ed elaborate da parte del gruppo per poi essere codificate e trasmesse da una generazione all’altra in un equilibrio continuo tra cambiamento e tradizione. La codifica avviene tramite le rappresentazioni mentali, collettive o sociali.

In questo modo, un bambino nasce e si sviluppa in un ambiente culturale abitato da rappresentazioni, idee e concetti caratteristici al gruppo di appartenenza.

L. Vygotsky, fondatore della scuola psicologica russa denominata storico culturale, affermava che lo sviluppo culturale del bambino avviene prima a livello sociale, e poi a livello individuale; “prima tra le persone (interpsicologico) e poi all’interno del bambino (intrapsicologico).”

Secondo Vygotsky la formazione dei concetti e tutte le altre funzioni cognitive come la memoria logica, l’attenzione volontaria ecc. hanno origine nell’habitus di relazioni tra individui in cui nasce e continua a vivere il bambino.

Un concetto importante della teoria storico culturale di Vygotsky è quello di “zona dello sviluppo prossimo”, cioè quel momento critico della vita del bambino in cui diventa importante per la sua maturazione cognitiva l’aiuto degli adulti, il contenimento da parte dell’ambiente specifico spazio-temporale in cui vive.

Lo sviluppo sembra essere prodotto di una combinazione di influenze. L’ambiente sociale, le relazioni interpersonali, le caratteristiche storico-culturali, la collocazione spazio-temporale dell’individuo viene a influenzare la struttura biologica determinata geneticamente. Se accettiamo che lo sviluppo cognitivo del bambino si svolge principalmente su questi due binari, possiamo desumere anche che i disturbi psicopatologici nascano seguendo la stessa direzione spazio-temporale, sotto influenze sociali, etnico-culturali da una parte e genetiche, biologiche e strutturali dall’altra.

I gruppi etnici portano con sé la loro cultura e generalmente tendono a mantenere il loro modo tradizionale di vivere anche nel tessuto sociale del nuovo paese dove vengono inseriti. E inseriti non vuol dire automaticamente integrati. La tendenza assimilante o fagocitante della maggioranza incontra la resistenza culturale o nei casi peggiori la ghettizzazione della minoranza.

L’incontro si trasforma in uno scontro quando i vettori opposti raggiungono un punto critico di esasperazione sotto l’influenza di fattori specifici storici, economici, politici e sociali. Nel tentativo di trovare la “verità” si esasperano le posizioni, si scontrano le culture, le loro leggi codificate.

La legge francese ad esempio si scontra con la “legge” coranica quando promulga il divieto di uso del velo da parte delle donne di tradizione islamica.

Rimanendo sempre nell’ambito delle nostre società occidentali possiamo identificare due posizioni estreme: da una parte quelli che affermano la superiorità assoluta della nostra cultura e indicano come soluzione l’assimilazione degli altri gruppi con “meno cultura” o appartenenti a “culture inferiori”; dall’altra parte ci sono quelli che si battono per la difesa di ogni tipo di differenza e dichiarano che tutte le culture sono “meravigliose”.

Per ricordarsi che le “culture” non sono sempre “meravigliose” possiamo fare una breve rassegna di certe usanze o costumi:

l’infibulazione delle donne in Arabia Saudita o in Somalia, chiamata sunna (cioè tradizione);
il taglio della mano al ladro in certe società islamiche;
la lapidazione delle donne che hanno commesso o sono sospettate di adulterio, sempre nelle società di tradizione islamica;
il delitto d’onore fino a tempo fa vigente anche in Italia e nella “civile” Europa;
il furto effettuato da certi gruppi o individui rom per continuare a vivere nel modo “libero” dei loro avi, ormai svuotato di significato e di mezzi dal mondo moderno, ecc.
Poche culture sono rimaste immuni dai rischi di questo potenziale incontro-scontro tra le due tendenze opposte: quella di assimilazione/fagocitazione e l’altra di affermazione/ghettizzazione culturale.

Gli esempi di questo continuo incontro-scontro tra “NOI” e “ALTRO” sono innumerevoli nel mondo, sia nell’ambito dell’immigrazione che in quello delle minoranze. L’identità irlandese si incontra e si scontra con quella britannica, la cultura ebraica ha incontrato quasi tutte le altre culture trovando spesso degli scontri tragici, l’etnia basca si trova continuamente davanti alla tentazione di scontro con il resto della popolazione spagnola, gli indiani d’America vivono ancora le conseguenze dell’acculturazione forzata da parte dei colonizzatori, gli albanesi, bosniaci, serbi, croati e rom sono appena usciti dal fuoco dell’odio etnico dell’ex Jugoslavia, le popolazioni di tradizione islamica si trovano spesso schiacciate tra terrorismo e acculturazione occidentale.

Gli immigrati generalmente approdano nel nuovo paese spinti dalla speranza di sfuggire alle difficoltà economiche, alle carestie, alle pulizie etniche, alle persecuzioni politiche ecc. Le condizioni che hanno lasciato e spesso quelle che trovano nel nuovo paese creano le premesse per disturbi psicologici come depressione, ansie, attacchi di panico ecc. Lo stress che subiscono gli immigrati e in genere gli appartenenti a culture minoritarie è di una maggiore entità essendo maggiori le difficoltà di sopravvivenza. Per di più la società occidentale esercita una pressione forte di acculturazione verso le minoranze, causando con ciò o una rapida modificazione e occidentalizzazione o una resistenza esasperata accompagnata da stress negativo per la salute mentale degli individui appartenenti a una cultura cosiddetta “semplice”.

L’etnopsichiatra, l’etnopsicologo, o meglio ogni psichiatra e psicologo, dovrebbe avere presente tutto ciò quando fa la diagnosi o prende in carico una persona di cultura diversa dalla propria. La sintomatologia potrebbe essere molto intricata, illusoria, confusa. La confusione può essere aumentata dall’appartenenza della persona a una determinata generazione o semplicemente dalla fascia d’età: anziani, adulti, giovani, bambini nati nel paese d’origine e quelli nati nel nuovo paese. Ad esempio, un anziano non ha la stessa motivazione e sopportazione di un giovane; un bambino che nasce nel paese nuovo cresce in una certa “incubatrice culturale” da cui viene poi catapultato nell’ambiente diametralmente diverso dell’asilo o della scuola.

Un’altra causa di confusione può essere il tempo e il luogo dell’esordio del disturbo: può avere origine lontana, portato dal paese d’origine, causato da fattori difficilmente identificabili oppure avere come causa la difficoltà che comporta il soggiorno nell’ambiente straniero oppure essere solo una temporanea sorta di spaesamento o di malinconia che si esprime con sintomi catalogabili come patologia.

L’apparente comunicazione facilitata, il libero movimento di persone, l’accrescimento dei contatti economici, politici e culturali ha causato una parvenza di rapida modernizzazione che può portare alle persone “modernizzate” una seria confusione di ruoli e di appartenenze, deculturazione o deprivazione culturale, assimilazione forzata, sensazione di sradicamento e insicurezza.

Il compito delle etno-discipline risulta importantissimo ma fortemente complicato. Identificare i disturbi psicopatologici diventa ardua impresa quando l'”altro” porta con sé nuovi archetipi, nuovi simboli, nuove inquietudini e timori, nuovi bisogni e paure. I concetti e le euristiche fino ad ora adatte alla popolazione relativamente compatta dei paesi europei diventano dubbi nella diagnosi dell'”Altro”.

Cosa vorrà dire l’espressione “pensiero magico” nel caso di un paziente africano? Cosa significherà il concetto di delirio, di percezione distorta della realtà e del sé, di reazione dissociativa e esperienza psicotica per una persona educata da uno sciamano?

L’educazione culturale, l’etno-educazione richiede una certa relativizzazione, la dissoluzione del modo universalistico di trattare i disturbi mentali e l’accettazione dell’incertezza. Le discipline transculturali che si occupano dell’altro devono tentare di diventare discipline dell’incontro, considerare la differenza senza abbracciare né un pensiero assolutamente relativistico né completamente universalistico.

Siamo uguali e diversi. C’è dell’universale nella differenza. Noi vediamo l’altro rispecchiarsi nei nostri occhi.

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titolo: Etnopsicologia, etnopsichiatria e l’idea dell’Altro
autore: Fatos Dingo
argomento: Etnopsicologia
fonte: Vertici Network
data di pubblicazione: 01/08/2002


Risposte

  1. Egregi, l’infibulazione non mi pare granché praticata in Arabia Saudita, piuttosto è assai diffusa la clitoridectomia in Egitto


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