Pubblicato da: rolandociofi | 17 ottobre 2011

Traumatismo cranio-encefalico: influenza degli aspetti affettivo-emozionali-timici sull’outcome funzionale di Mauro Macchio

Le competenze professionali dello psicologo nella presa in carico ai fini riabilitativi del cranioleso si possono estrinsecare in tre momenti: 1) momento clinico diagnostico-valutativo; 2) momento formativo dell’equipe operativa; 3) momento post-clinico relativo alla restituzione alla famiglia ed alla comunità.

Momento clinico diagnostico-valutativo
Nell’ambito dell’uso combinato e coordinato delle competenze professionali che costituiscono i percorsi di valutazione delle alterazioni dei processi cognitivi conseguenti a trauma cranio-encefalico, risulta di particolare importanza una corretta valutazione psicologica e neuropsicologica delle condizioni del paziente attraversi l’uso di strumenti standardizzati che consentano il confronto obiettivo degli indici di rendimento delle singole funzioni cognitive.

Il contributo che lo psicologo può offrire in questo campo di intervento è finalizzato alla stesura della diagnosi psicologica descrittiva e della diagnosi psicologica funzionale da integrare con la diagnosi di sede della lesione e con la diagnosi naturale fornite dallo specialista neurologo.

L’uso di una batteria di strumenti psicodiagnostici standardizzati permette una valutazione obiettiva dello stato del paziente sia dal punto di vista del danno subito, sia dal punto di vista del monitoraggio degli interventi terapeutico-riabilitativi.

Il setting d’esame.
La somministrazione dei test per la valutazione neuropsicologica è sempre preceduta da un colloquio anamnestico.
Dopo l’elaborazione e la valutazione delle prove effettuate e la formulazione delle diagnosi, viene eseguito un colloquio di restituzione. E’ necessario che tutte le fasi dell’esame siano seguite direttamente dallo stesso psicologo anche nel caso in cui la somministrazione dei test e delle scale venga affidata a personale tecnico appositamente addestrato.

L’ambiente nel quale viene effettuata la valutazione è caratterizzato da una bassa rumorosità, da una illuminazione adeguata, da una temperatura confortevole e dalla impossibilità di intrusioni ed interruzioni di qualsiasi natura. L’arredamento della stanza di consultazione deve comprendere un tavolo utilizzabile anche da persone in carrozzella e da due sedie di altezza adeguata. E’ buona norma eliminare oggetti e pezzi di arredamento che potrebbero costituire fonte di distrazione per i soggetti dell’esame. In ogni fase delle sessioni il solo materiale visibile sul tavolo è quello relativo al particolare test in esecuzione. In base al tipo e al numero dei test della batteria da somministrare, viene deciso preventivamente il numero di sedute necessario per completare la valutazione. Ogni sessione ha durata massima di 50-60 minuti con intervalli non inferiori ai 30 minuti. Nel caso in cui sia necessario effettuare la valutazione in giorni diversi, si deve avere cura di ridurre il più possibile i tempi tra ogni sessione e la successiva.

Qualora la somministrazione avvenga alla presenza di un osservatore (tirocinante, consulente etc.) quest’ultimo deve per quanto possibile trovarsi fuori del campo visivo dell’esaminando e dell’esaminatore. Una disposizione utile in questo senso pone esaminatore ed esaminando seduti a 90° con l’osservatore seduto ad una distanza non inferiore a 150 cm. lungo la bisettrice dell’angolo di tavolo utilizzato.

L’esaminatore deve porre particolare cura nel ridurre per quanto possibile i fattori legati all’atteggiamento ed al comportamento del soggetto che possono influenzare talvolta in maniera determinante i risultati della batteria. In particolare deve prendere in considerazione:
eventuali situazioni di disagio fisico del soggetto,
disagi relativi alle condizioni ambientali,
difficoltà nella comprensione dei compiti,
frustrazione conseguente a l’eventuale insuccesso delle prove,
rifiuto, svalutazione e ostilità nei confronti della situazione d’esame,
tendenza alla simulazione,
atteggiamento superficiale, dipendente, passivo e ipercritico.
Le competenze necessarie per una corretta valutazione psicodiagnostica in campo neuropsicologico implicano:
la conoscenza dei fondamenti di Teorie e Tecniche dei test, di tecniche di indagine della personalità e di Statistica psicometrica
una esperienza consolidata in campo psicodiagnostico in generale e relativamente ad ogni strumento utilizzato
un buon livello di conoscenza delle patologie del S.N.C.
qualora la somministrazione venga affidata a personale tecnico, la valutazione di ogni singola prova, la stesura della sintesi, della diagnosi descrittiva e della diagnosi funzionale, deve essere effettuata dallo psicologo.
Momento formativo dell’equipe operativa
Come già esposto in precedenza il lavoro e la progettualità terapeutica nell’ambito del processo riabilitativo non possono che essere organizzati in ambito di equipe.
Lo psicologo è la figura professionale che istituzionalmente ha il compito di determinare le dinamiche di organizzazione del gruppo di lavoro.
Per “equipe” o gruppo di lavoro, intendiamo un insieme individuato da una propria configurazione, una ripartizione operata in base a caratteristiche qualitative, strutturali e professionali in ambito organizzativo e scientifico. In esso i rapporti tra i membri sono interdipendenti, cioè il comportamento di ciascun membro influisce su quello di ciascun altro; inoltre credenze, norme, valori, cultura, professionalità, regolano la reciproca condotta per il conseguimento di un determinato obiettivo.
Prerequisito intrinseco per l’appartenenza alla filosofia operativa del gruppo, è non essere un operatore chiuso nella torre del proprio specifico, ma entrare in una logica di programmazione, attuazione, verifica delle attività, attraverso circolarità e livelli successivi di consapevolezza, non immaginati come il progressivo avvicinamento ad una verità, ma come la costruzione di un sapere ricco, ma provvisorio ed aperto ad infiniti auspicabili sviluppi successivi.
Il punto cruciale di ogni organizzazione è la catena delle responsabilità.
L’allargamento a più soggetti di poteri decisionali, la non netta delimitazione di competenze tra ruoli diversi, il troppo frequente ricorso a strumenti eterei come il coordinamento senza la previsione di forti vincoli di verifica, non consente alcuna corretta operatività e facilita il continuo ricorso a conflitti di forza che non danno risultati concreti né di efficacia né di efficienza.

Un nodo decisivo per la validità del team, è rappresentato dalla definizione della leadership: né un autoritarismo di “ruolo istituzionale” che accentra le decisioni e delega pochissimo potere, né uno stile di comando lassista che lascia completa libertà di decisione al gruppo e ai singoli componenti è a mio avviso efficace.

Il leader, autorevole per cultura, esperienza specifica, professionalità nel managing, condivide e delega funzioni con i membri del gruppo, incoraggiandoli a partecipare alla definizione degli obiettivi ed alla pianificazione e direzione delle attività di gruppo, accettando ed anzi favorendo sistematicamente verifiche sia verticali che orizzontali, facendo emergere le strategie terapeutiche a partire dalla ricognizione dei problemi e delle risorse disponibili, dalla capacità di fruirle e di prefigurare uno stato desiderato, alla luce di obiettivi condivisi come dimensione costante per l’orientamento.

Il leader sa garantire un alto grado di interconnessione del gruppo, inteso come la misura in cui sono aperti i legami di comunicazione tra i membri, influenzando così sia le cosiddette “risposte emozionali” (il dimostrare solidarietà/antagonismo, l’aumento/diminuzione di tensione, il concordare/dissentire), sia risposte di “problem solving” (quali il dare/chiedere suggerimenti, esprimere/chiedere opinioni, fornire/chiedere orientamenti).

La formazione di un professionista con queste caratteristiche e l’interazione tra questo e gli altri professionisti che costituiscono l’equipe come sopra delineato è compito professionale dello psicologo.

Momento post-clinico relativo alla restituzione alla famiglia ed alla comunità
Ruolo dello psicologo in questa fase è quello di preparare il contesto familiare e comunitario all’accoglimento di una persona più o meno “cambiata” in conseguenza alle disabilità residue post traumatiche.
Nel momento della “presa in carico della famiglia” lo psicologo deve reperire tutte le informazioni possibili sugli esiti del trauma di un determinato paziente affinchè il programma possa essere adattato alle singole situazioni e:
vengano correttamente valutate le aspettative della famiglia che per una serie di motivi non considerati in questa sede sono certamente maggiori rispetto a quelle di famigliari di soggetti con patologie disabilitanti congenite;
siano fornite corrette informazioni sulle condizioni cliniche del paziente e sulla loro evoluzione, poiché la gravità degli esiti post-traumatici è una delle principali cause dello scompenso familiare;
siano individuate le priorità e le modalità di intervento non solamente in base all’intuito o alla sensibilità dell’operatore, ma, soprattutto, in base a una formazione professionale che gli consenta un’ampia conoscenza di alternative;
si possano prevenire e valutare eventuali conflitti tra famigliari ed équipe, particolarmente frequenti nel caso di genitori di pazienti adolescenti (McLaughlin A.M. 1993).
Lo psicologo deve conoscere le fasi tipiche del decorso post-traumatico non solo del paziente, ma anche della famiglia ed attivare gli interventi più adeguati al caso e al momento.
La presa in carico deve avviarsi il più precocemente possibile, ma le modalità di intervento dovranno essere diverse a seconda della fase “emotiva” in cui la famiglia si trova nel delicato e complicato processo di accettazione di una nuova realtà.

Nella fase di “crisi” che caratterizza il primo periodo dell’evento traumatico (le condizioni cliniche del paziente non sono stabilizzate, è ancora in Unità Intensiva, o nella fase di transazione nel Centro di Riabilitazione) è più utile un approccio di tipo prevalentemente “educativo/informativo” di ausilio per una migliore comprensione del problema clinico e per una più efficace assistenza al proprio paziente. Durante la fase di crisi – assimilabile ad ogni altro stato di “crisi” conseguente a gravi eventi della vita ed ampiamente descritto nelle sue basi patogenetiche e cliniche – i famigliari sono ininterrottamente accanto al loro paziente, ma vivono in uno stato psico-emotivo caratterizzato da rifiuto, incredulità e vero e proprio sconcerto confuso, tale da non consentire l’elaborazione razionale per affrontare il problema (Cope N. 1994). Tuttavia, la transitoria e convulsa concitazione di questa prima fase, presenta anche per sua stessa natura una grande influenzabilità e disponibilità (Shaw L.R. 1990) che possono facilitare l’avvio precoce dell’assunzione in carico finalizzata a:
Informare la famiglia sugli esiti del trauma e sulle corrette aspettative (Glennon T.P. 1990);
Aiutare i singoli membri alla ridistribuzione di compiti e responsabilità;
Evidenziare le eventuali interazioni e modalità di comunicazione non adattive.
Blosser & De Pompei (Blosser J. 1955) suggerisconi l’opportunità di attivare interventi di “mentoring” che dovrebbero svolgere una vera e propria “tutela” delle famiglie.

Numerose sono le attività che possono esservi comprese; ad esempio:
iniziali contatti informali (in questa fase le associazioni dei famigliari possono avere un ruolo fondamentale di ausilio);
identificazione di un membro dell’équipe che funga da referente-tutore;
dimostrazione e discussione dei vari trattamenti ed elenco delle varie figure professionali e del relativo ruolo;
distribuzione di opuscoli informativi o di agende-diario;
assistenza diretta qualora la famiglia debba affrontare difficoltà contingenti (per esempio, trovare una sistemazione alberghiera, contattare associazioni di assistenza, organizzare turni di assistenza, ecc.).
Superata la fase intensiva per il paziente, ma “intensiva” anche per le famiglie, solitamente si avviano i programmi di riabilitazione e da parte della famiglia si avvia un lungo processo di accettazione attraverso complessi meccanismi di “aggiustamento”, quale può essere l’atteggiamento di “negazione” (sensi di colpa, rabbia, scetticismo e depressione).

Tale situazione emotiva giustifica l’attivazione di attività di supporto alle famiglie secondo modalità più “strutturate” e finalizzate alla maggior responsabilizzazione possibile delle medesime (o “empowerment”, secondo una terminologia mutuata dalle più recenti teorie di organizzazione aziendale).

L’organizzazione di incontri periodici, tra famiglie o gruppi di famiglie e l’équipe, condotti dallo psicologo, devono offrire l’occasione per formulare domande, riconoscere i propri bisogni, esprimere gli stati d’animo (fantasie irrealistiche sul recupero, timori verso lostaff, ecc.).

Nella mia esperienza con l’équipe del Centro di Seravezza, ho messo a punto un “diario personale” che viene consegnato alle famiglie dei pazienti con TCE all’ingresso in reparto, contenente una prima parte informativa sugli esiti possibili dei traumi cranici, un glossario della comune terminologia medica, l’elenco degli operatori che si occupano del paziente ed una serie di schede settimanali in cui i famigliari annotano le osservazioni sul proprio congiunto e gli eventuali quesiti da porre agli operatori.
Tali schede forniscono spunti per aprire il dialogo negli incontri settimanali tra lo psicologo ed i gruppi di famigliari.

Nella fase “cronica” degli esiti (che praticamente si inizia con la dimissione dalle strutture di riabilitazione) è giustificato il proseguimento dell’intervento con sessioni di terapia familiare, per affrontare i conflitti persistenti o insorti a distanza di tempo dall’evento traumatico e inerenti le aspirazioni frustrate , il senso di isolamento, i problemi della ridistribuzione dei ruoli e compiti, i problemi della gestione degli eventuali fratelli del paziente, ecc. Il modello sistemico può offrire validi spunti per attivare o sviluppare meccanismi di adattamento secondo le capacità di ciascun membro del nucleo (Maitz E.A. 1995).

L’avvio tardivo di una terapia famigliare, senza le fasi “preparatorie” precedentemente descritte, può rivelarsi complicato da una serie di fattori, tra i quali:
sviluppo di modalità patologiche di comunicazione difficilmente modificabili;
sospensione di qualsiasi forma di comunicazione tra i singoli membri, oppure tra i membri di un sottosistema (per esempio, la coppia genitoriale);
“disinvestimento” affettivo da parte di qualche membro del nucleo famigliare;
sviluppo di conflitti staff/famigliari (Shaw L.R. 1990) che, oltre a risultare più frequenti nei casi in cui il paziente è un adolescente (McLaughlin A.M. 1993), secondo quanto riferito da alcuni Autori, apparirebbero diversificati a seconda delle categorie professionali che hanno in carico il paziente (McMordie W.R. 1991).
Quale tipo di famiglia abbiamo di fronte ?
La valutazione delle dinamiche post-trauma interpersonali e del funzionamento di una famiglia non può prescindere dalla considerazione delle caratteristiche pre-trauma del gruppo familiare e della fase del ciclo della vita in cui si trovava al momento dell’evento traumatico.
Tra gli aspetti prognostici strettamente interagenti e più rilevanti nella formazione di un setting efficace vi sono da comprendere le componenti sottoelencate.
La struttura, cioè la distribuzione dei ruoli relativamente all’esercizio dell’autorità, del potere e degli affetti. Come qualsiasi organizzazione (azienda, comunità, istituzione), anche la famiglia è fondata su un “codice” di principi che legittima le regole e la posizione dei singoli sia all’interno del proprio sistema, sia nei confronti della società in cui il sistema è inevitabilmente inserito (ad esempio, un tipico aspetto strutturale è l’organizzazione gerarchica tra genitori e figli). Essendovi, quindi, una stretta interazione tra famiglia e società, una struttura familiare ben funzionante deve essere in grado di adeguare il proprio codice ai mutamenti interni e sociali. Poiché il trauma è vissuto come la “perdita” temporanea o permanente di un membro, la suddivisione dei compiti, la gerarchia ed i ruoli subiscono profonde modificazioni. I bisogni del paziente prevalgono su tutti gli altri, non vi è più la possibilità di rispettare il “codice” che regolava l’organizzazione al proprio interno e nei confronti della società e, quindi, difficilmente la famiglia è in grado di mantenere efficienti le relazioni interne e sociali (lavoro, attività del tempo libero, impegni sociali, ecc.).
L’identità: in qualsiasi famiglia, non solo vi è una organizzazione strutturale, ma esiste anche una sorta di consenso più o meno esplicito sulla base del quale le scelte dei singoli sono condivise dal gruppo. A seguito di un evento traumatico, viene meno il consenso sulle attività ed i valori, che aveva caratterizzato la vita familiare pre-trauma ; ciascuno vive una sensazione di perdita senza prospettive poiché le attività o le decisioni che un tempo sarebbero state condivise, ora possono divenire causa di conflitti interpersonali.
Le modalità di comunicazione, cioè considerazione per l’altro, chiarezza e libertà di espressione, abilità comunicative, caratteristiche che in un sistema funzionante costituiscono modalità efficaci nella realizzazione dei compiti, nella risoluzione dei problemi e nel favorire le interazioni tra i singoli membri. La comunicazione è una componente particolarmente alterata, in senso caotico, tenuto conto che l’elemento primo del “sistema” – il paziente – quasi certamente presenterà problemi in questa area. Numerose ricerche concordano nel ritenere i deficit di comunicazione del paziente quali principali responsabili dello stress e della “destabilizzazione” familiare (Lezak M.D. 1988-McKinlay W. 1981).
La coesione: intesa come il grado di autonomia personale di ciascun soggetto. In un sistema familiare con modalità di funzionamento adeguate, deve sussistere un equilibrio tra i bisogni dei singoli e la necessità del gruppo. Come abbiamo detto, improvvisamente i bisogni di un soggetto prevalgono su tutti gli altri e vengono così trascurati sia quelli di altri membri, sia quelli della famiglia come unità. Tutto questo facilita lo scadimento o la perdita del senso di appartenenza indispensabile per una buona coesione: alcuni membri possono, quindi, “abbandonare” affettivamente la famiglia e cercare sostegno altrove, per esempio nel lavoro, presso il gruppo degli amici, ecc.
L’adattabilità, intesa come la capacità del sistema familiare di modificare ruoli, regole, stile educativo in risposta a circostanze imprevedibili o situazioni di stress. Per quanto riguarda questa componente, a causa della radicale modificazione strutturale sopradescritta, nel caso di gravi esiti post-traumatici, certamente è messa a dura prova la capacità di prendere decisioni adeguate allo stato di emergenza in cui si trova la famiglia.
Classificazione delle famiglie.
Sulla base delle classificazioni di Sachs (Sachs P.R. 1991), proponiamo una classificazione delle famiglie sulla base di tre importanti componenti che condizionano la presa in carico:
l’interazione con gli operatori in termini di coinvolgimento e cooperazione al trattamento;
il livello di coesione tra i membri del sistema familiare;
l’intensità del rifiuto delle conseguenze dell’evento traumatico.
La varia combinazione di queste caratteristiche consente di inquadrare le famiglie in alcune tipologie suddivisibili in due sottogruppi. Tuttavia, si rende necessaria una premessa: nella pratica, è assai improbabile circoscrivere una famiglia in una definizione; solitamente a seconda del momento o delle circostanze, sono rilevabili atteggiamenti che potrebbero essere inquadrati in categorie diverse. Quindi, pur considerando l’artificiosità di tale classificazione, verranno delineate le caratteristiche di ciascuna “categoria” che possono avere un riscontro nella pratica riabilitativa.

Nel primo sottogruppo vi sono comprese le famiglie che, nonostante la possibile presenza di problematiche nel loro funzionamento interno, possono mantenere interazioni positive con gli operatori.
La famiglia “adempiente”, ovviamente, potrebbe rappresentare la “famiglia ideale”, quella con cui vorremmo tutti lavorare, in quanto presenta numerosi aspetti positivi, quali: un elevato grado di coesione tra i membri; una buona consapevolezza delle conseguenze del trauma; l’apparente impegno ad offrire la massima disponibilità alla collaborazione. Ma, tale apparente ottimale adattamento, può mascherare la presenza di conflitti ed elevati livelli di stress in singoli membri del sistema, derivanti da aspettative di miglioramento poco realistiche; negli operatori possono attivarsi meccanismi di controtransfert, quali la tendenza a sovrastimare le capacità di adattamento, oppure a concedere eccessiva confidenza a qualche famigliare con cui l’operatore si sente particolarmente in sintonia, fino a creare pericolose “alleanze” che finirebbero con il “sovraccaricare” tali famiglie di compiti o responsabilità e facilitare così lo “slittamento” verso il punto di rottura che tutti i soggetti sottoposti ad eventi stressanti, prima o poi, presentano.
La famiglia “iperprotettiva” si differenzia dalla precedente solamente per il minore grado di accettazione delle conseguenze del trauma: pur mantenendo una buona coesione interna ed una buona collaborazione con gli operatori, a conseguenza dell’atteggiamento di negazione della gravità degli esiti post-traumatici, tendono a circoscrivere le attenzioni o le preoccupazioni ad uno specifico problema, trascurando la eventuale compresenza di altre aree problematiche; oppure tendono a negare eventuali miglioramenti durante il trattamento; oppure tendono a sottoporre il paziente ad incessanti “esercizi” o attività impegnative, senza concedere le necessarie soste con attività di svago, e, da parte degli operatori, vi può essere, quindi, la tendenza a rinforzare tali comportamenti di ipercoinvolgimento che maschera esigenze di iperprotezione del paziente.
La famiglia “dipendente”. Ad un esame superficiale, le famiglie in cui prevale l’atteggiamento di dipendenza dalle strutture, possono essere confuse con quelle definibili “adempienti”, in quanto possono avere una buona consapevolezza delle conseguenze del trauma, conservano discrete capacità di interazione con il mondo esterno e, quindi, anche con gli operatori. Ma, ad un esame più approfondito, spesso possibile solo a posteriori, si può rilevare la loro disaggregazione e la presenza di marcati conflitti interni che non consentono la necessaria razionalità sul da farsi per affrontare i problemi. Così, questi famigliari tendono a delegare qualsiasi decisione agli operatori, suscitando in questi possibili sentimenti di onnipotenza.
La famiglia “negligente” differisce dalla precedente per il minor grado di accettazione della gravità degli esiti del trauma. Pur mantenendo interazioni sufficientemente positive con gli operatori, le famiglie in cui si sono attivati intensi meccanismi di negazione, che mascherano la presenza di intollerabile stress emotivo, difficilmente sono in grado di reggere un attivo coinvolgimento nei programmi riabilitativi. Gli operatori dovranno valutare quanto tale scarsa attitudine al coinvolgimento, costituisca un tratto caratteristico del sistema familiare, o quanto, invece, sia un problema di origine psico-emotiva conseguente al trauma e, quindi, attivare gli interventi più adeguati all’una o all’altra eventualità. Il secondo sottogruppo comprende le famiglie che interagiscono negativamente con gli operatori e, quindi, la presa in carico risulterà più difficoltosa, benchè non tutte le caratteristiche del funzionamento interno siano connotate negativamente.
La famiglia “dissintonica” nei confronti degli operatori. La principale connotazione negativa di questo tipo di famiglia riguarda le difficoltà nelle interazioni con gli operatori, mentre la struttura interna del sistema familiare può mantenersi sufficientemente adeguata in termini di coesione e consapevolezza della gravità degli esiti post-traumatici, pur essendovi la possibilità di conflitti e di elevati livelli di stress. L’insorgenza di incomprensioni con gli operatori è più probabile che si verifichi qualora sussistano profonde divergenze socio-culturali tra l’operatore professionale e la famiglia in questione (per esempio, differenze etniche o religiose). In questi casi, data l’assenza di problemi riguardanti la struttura familiare in sé, può essere di maggiore ausilio provvedere alla sostituzione dell’operatore in difficoltà, con altro di maggiore esperienza o che possieda caratteristiche personali più consone alla famiglia, oppure si può pensare alla modificazione del programma riabilitativo, piuttosto che intervenire sull’organizzazione strutturale del sistema.
La famiglia “provocatoria”. Il lavoro con le famiglie che manifestano atteggiamenti provocatori è tra i più delicati in quanto viene messa a dura prova la capacità empatica degli operatori. Tali famigliari, presentando un eccessivo grado di coesione all’interno del gruppo, passano molto del loro tempo accanto al paziente in riabilitazione, ma tendono ad apparire antagonisti del mondo esterno, dimostrando, al contempo, una scarsa consapevolezza della gravità degli esiti. Gli atteggiamenti di scetticismo o di sfida (per esempio, circa i tempi e le modalità di trattamento del paziente) possono generare negli operatori meccanismi di controtransfert negativo che, se non riconosciuti e controllati (per esempio nell’ambito di incontri di équipe programmati ad intervalli brevi), aggraverebbero le conflittualità, mentre uno dei principali obiettivi della presa in carico di queste famiglie è la riconquista del senso di fiducia verso il mondo circostante che, in seguito all’evento traumatico, è sentito come una minaccia da cui difendersi.
La famiglia “disimpegnata” presenta, quale unico elemento positivo, una grande accettazione degli esiti del trauma, mentre la coesione interna è connotata in senso caotico. Le problematiche interazioni con l’équipe, come in precedenza ho sottolineato per le famiglie definite “dissintoniche”, possono essere riferibili a profonde differenze socio-culturali con gli operatori, oppure a problematiche personologiche di qualche membro del sistema. Anche in questi casi, talvolta, può essere opportuno provvedere alla sostituzione dell’operatore in difficoltà, oppure si può valutare, in ogni singolo caso, se sia consigliabile l’intervento di uno specialista competente per i problemi del famigliare.
La famiglia “isolata” è così definita in quanto al proprio interno ciascun membro vive “isolato” dagli altri in assenza di coesione e vive “isolato” anche nei propri sentimenti, con profondi meccanismi di negazione; infine, la famiglia mantiene una eccessiva “distanza” dagli operatori professionali, per esempio, “sfuggendo” ai contatti diretti, oppure disertando gli incontri programmati. Tali famiglie si presentano come letteralmente “scoppiate”, distrutte dalla gravità dell’evento traumatico che ha annullato le loro risorse emotive e razionali; gli operatori non devono confondere l’assenza di coinvolgimento con l’assenza di bisogni, anzi, l’obiettivo della presa in carico, nonostante le inevitabili difficoltà iniziali, deve essere quello di stabilire un minimo di contatto che consenta loro di uscire dall’isolamento. A questo scopo, potrebbero essere coinvolte persone significative esterne alla famiglia (parenti, associazioni di volontariato, persino i vicini di casa, ecc.), affinchè possa attivarsi una efficiente “rete sociale” di supporto (vedi oltre).
Modalità di valutazione del sistema familiare.
Bishop e Miller (Bishop D.S. 1989) riferiscono che le metodologie e gli strumeti di indagine orientati alla valutazione delle famiglie sono numerosi, ma nella pratica clinica la loro applicazione aì casi di famigliari di pazienti post-traumatici non è sistematizzata e, comunque, a tutt’oggi non sono reperibili dati normativi su questo tipo di famiglie, lasciando ampio spazio alla ricerca in questo campo.
Dunque, l’applicazione di strumenti classicamente adottati in patologie di diversa natura ai casi di famiglie di traumatizzati cranici può essere di ausilio nella formulazione di scelte operative, ma è anche necessario abbandonare gli schematismi ed il rigore che caratterizzano i modelli teorici che vi sottendono.
Qui di seguito vengono elencati i possibili strumenti di valutazione del funzionamento familiare (talvolta già applicati o adattabili alla pratica riabilitativa dei traumi cranici) con i relativi riferimenti bibliografici.
Questionari autosomministrati ai singoli membri di un gruppo familiare.
La Family Environment Scale (FES) proposta da Moss (Moos R. 1974), è un questionario di 90 domande “vero-falso” che indaga le seguenti componenti: coesione, indipendenza, organizzazione, controllo ed identità.
La Family Adaptability and Cohesion Evaluation Scale (FACES III) proposta da Olson e coll. (Olson D.H. 1979- Olson D.H. 1983), è un questionario di 20 domande che valuta il punto di vista dei singoli membri circa il funzionamento del sistema relativamente alle dimensioni della coesione ed adattabilità. La traduzione italiana (Galimberti C. 1992) nelle due forme previste dagli Autori (famiglia reale e famiglia ideale) è parte del protocollo di valutazione applicato presso la Sezione di Neuropsicologia di Parma (vedi oltre).
Family Assessment Device (FAD) proposto da Epstein e coll. (Epstein N. 1983), è un questionario di 60 domande orientate alla esplorazione di sette dimensioni: capacità di risoluzione dei problemi, comunicazione, ruoli, partecipazione affettiva, coinvolgimento emotivo, comportamenti e funzionamento generale.
Family Inventory of Live event and Changes (FILE) proposto da McCubbin e coll. (McCubbin H.I. 1981), è un questionario che valuta le capacità di soluzioni dei problemi e le strategie comportamentali della famiglia relativamente agli eventi della vita.
La family Crisis Oriented Personal Evalutation Scale (F-COPES) proposta da McCubbin e coll. (McCubbin 1979), è un questionario somministrabile a tutti i membri delle famiglie con pazienti traumatizzati cranici e valuta l’abilità del gruppo nel reperire risorse ed individuare strategie operative.
Interviste strutturate.
La McMaster Structured Interview for Families proposta da Biishop e Miller (Bishop D.S. 1989) consiste in una serie di domande formulate ai famigliari e finalizzate alla raccolta di ulteriori informazioni integrative del questionario FAD sopracitato.
La Family Task Interview proposta da Kinston e Loader (Kinston W.1988) è una intervista orientata a valutare le modalità di interazione familiare.
Riprendendo le premesse sopradescritte, la valutazione delle famiglie di pazienti vittime di traumi cranio-encefalici deve essere adattata alle peculiarità di tale casistica ed integrata da incontri mirati a verificare gli aspetti prognostici più rilevanti nella formazione di un setting efficace e soddisfare i bisogni di ogni singolo caso.

A tal fine occorre valutare le attuali caratteristiche di funzionamento secondo le componenti precedentemente descritte: struttura, identità, comunicazione, coesione, ed adattabilità, ma è necessario anche rilevare una serie di altre condizioni soggettive ed oggettive. La disponibilità al coinvolgimento deve essere attentamente valutata sia in termini emotivi che di possibilità oggettive: ad esempio, nei casi di maggiore gravità degli esiti post-traumatici, l’onere oggettivo a carico delle famiglie ed in particolare delle madri, spesso, non consente loro di aderire ad eventuali opportunità di supporto psicologico. Gli operatori devono verificare il tipo di informazioni, il livello di comprensione delle condizioni generali del paziente, le aspettative circa il recupero (realistiche-irrealistiche) ed i “vissuti” emotivi inerenti l’evento traumatico (adeguati-patologici), ad esempio, attraverso l’accertamento della presenza di eventuali attribuzioni di responsabilità (spunti persecutori o sensi di colpa) e del livello di stress emotivo dei singoli membri della famiglia. Anche la descrizione di eventi traumatici di varia natura, precedenti quello attuale, e le relative reazioni dei singoli soggetti, può essere di ausilio all’inquadramento di un dato sistema familiare. La qualità dei contatti sociali mantenuti dopo l’evento traumatico possono contribuire a fornire elementi utili per valutare il grado di integrazione o di isolamento di ogni soggetto, sia all’interno del sistema che verso l’ambiente esterno.

L’analisi delle caratteristiche del funzionamento dei “sottosistemi” (la coppia genitoriale, i fratelli, i nonni, ecc.) può essere di ausilio nell’individuare i soggetti che necessitano di particolari attenzioni. Diversi Autori sono ormai da tempo concordi su alcune caratteristiche ripercussioni sui singoli membri del nucleo familiare nel caso in cui si sia verificato un evento traumatico: le madri riferiscono un notevole stress emotivo direttamente correlato con la gravità degli esiti ed in particolare se il paziente rimane in stato vegetativo (Livingston M.G. 1985- Stern J.M. 1998); i padri sembrano tollerare meglio lo shock e la crisi iniziale, ma a lungo termine abbandonano più facilmente la famiglia, sia fisicamente che psicologicamente (Panting A. 1972); i fratelli tendono a competere con il paziente per riconquistare le attenzioni dei famigliari (Rosenthal M. 1983), oppure si assumono responsabilità che non competono alla loro età ed al loro ruolo, oppure possono sentire che è loro proibito manifestare paure e frustrazioni.

Il risultato è spesso quello di uno scadimento del rendimento scolastico, una tendenza all’isolamento sociale e turbe del comportamento, quali rifiuto del cibo, iperattività, aggressività, ecc.

Nella nostra esperienza, al fine di raccogliere informazioni che consentano di inquadrare le caratteristiche di ogni famiglia e facilitare le scelte operative, abbiamo messo a punto un protocollo di screening finalizzato ad individuare le famiglie che, a distanza di tempo dall’evento traumatico, presentano difficoltà di accettazione ed adattamento.

La valutazione si svolge nel corso di più incontri con tutti i membri di una famiglia (solitamente in coincidenza dell’esame neuropsicologico di controllo a sei mesi dalla dimissione del paziente) ed è orientata alla rilevazione dei seguenti aspetti:
la composizione del nucleo familiare attuale, le caratteristiche anagrafiche e il ruolo dei singoli membri;
la presenza di altre persone significative non conviventi;
la sussistenza di eventi stressanti verificatisi appena prima, contemporaneamente o successivamente l’evento traumatico e le reazioni emotive dei singoli soggetti;
la quantificazione dei bisogni in termini di onere oggettivo e soggettivo (impegno finanziario, assistenza sanitaria e domestica, limitazioni delle attività ricreative, educative e sociali, modificazioni delle relazioni affettive);
le strategie di compenso spontaneamente attuate da ciascun famigliare (accettazione passiva, negazione, razionalizzazione, sublimazione, richiesta di supporto sociale e consulenze specialistiche);
i livelli di coesione e di adattabilità rilevati con questionario FACES III (vedi sopra).
Sulla base delle informazioni così raccolte, è possibile formulare un “progetto” di intervento il più adeguato possibile alle esigenze e potenzialità di ogni singolo caso.

Condizioni che consentono l’attivazione di una efficace rete sociale.
A seconda della gravità degli esiti post-traumatici, della fase del processo di accettazione e adattamento della famiglia, potrebbe essere opportuno o addirittura necessario, comprendere nel processo di reinserimento, persone significative per il paziente (oltre ai genitori ed agli eventuali fratelli). L’équipe, quindi, deve essere in grado di individuare e valutare il loro livello di motivazione al coinvolgimento, nonché di elaborare adeguate modalità di “contatto” al fine di attivarle quali elementi di una efficace rete sociale di supporto. Ad esempio: parenti conviventi e non (nonni, zii, cugini, ecc.) possono contribuire allo sgravio dell’onere oggettivo dell’assistenza nei casi di maggiore gravità degli esiti, generalmente riservato ai soli genitori e, principalmente, alle madri; amici e compagni di lavoro possono rappresentare valide risorse di reinserimento socio-affettivo, se adeguatamente informati e coinvolti; istruttori e superiori in grado sono certamente figure che possono esercitare e generalizzare l’apprendimento di abilità in ambito extra-riabilitativo in base alle capacità residue; anche i vicini di casa potrebbero essere sensibilizzati nel divenire affidatari di compiti.

Riflessioni
L’analisi fin qui condotta circa la presa in carico delle famiglie può ricondursi ai seguenti ordini di istanze.
può avvenire solamente se inserita in un programma di trattamento che opera in un’ottica “transdisciplinare”, cioè, sono necessarie una buona interazione dello psicologo nel proprio gruppo di lavoro, una efficiente cooperazione tra gruppi di lavoro con diverse competenze e la considerazione delle problematiche familiari come indissociabili dagli esiti del trauma,
richiede che sia condotta da psicologi con competenze specifiche anche in materia di riabilitazione dei traumi cranici;
qualsiasi metodo di trattamento si intenda applicare, occorre una estrema flessibilità, nel senso che i modello o le tecniche tradizionali devono essere integrate e adattate alla peculiarità dei traumi cranici;
lo psicologo deve stabilire una valida cooperazione con le famiglie fin dalle prime fasi del recupero e, soprattutto,
adeguare il livello di intervento alla fase del processo di accettazione della “perdita” in cui si trova ogni singola famiglia.
Infine il trattamento delle problematiche familiari può essere avviato dopo attenta valutazione dei numerosi fattori che possono condizionare la presa in carico.

Purtroppo, allo stato attuale, almeno nel nostro Paese, i programmi di riabilitazione tendono ancora a circoscrivere le attenzioni agli esiti post-traumatici del paziente (deficit e disabilità) ed a trascurare le complesse problematiche familiari e la loro influenza sul processo di adattamento e reinserimento sociale. Per concludere questo capitolo, sottolineo la necessità di identificare nuove figure professionali in grado di garantire interventi qualificati e la necessità di sviluppare programmi di formazione per psicologi che comprendano anche periodi di tirocinio o esperienze cliniche con pazienti che abbiano riportato traumi cranio-encefalici.

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titolo: Traumatismo cranio-encefalico: influenza degli aspetti affettivo-emozionali-timici sull’outcome funzionale
autore: Mauro Macchio
argomento: Psicologia della Riabilitazione
fonte: Vertici Network
data di pubblicazione: 03/09/2002

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