Pubblicato da: rolandociofi | 18 luglio 2011

Alberto Giacometti: l’artista della fragilità esistenziale di Giuseppe Morgana

Nell’estate del 1999 mi recai nella Svizzera Italiana del Canton Ticino. Volevo vedere Ascona, una città, per certi versi, mitica sul Lago Maggiore. Proprio in quella cittadina si erano tenuti gli importanti incontri di Eranos tra Carl Gustav Jung e studiosi di prestigio di varie discipline, non solo con altri psicologi “junghiani”. Jung ironicamente diceva che di “junghiano” c’era soltanto lui! Era dell’avviso che non ha senso etichettare gli psicologi secondo il fondatore di una scuola psicologica, come, per esempio, “freudiani”, “adleriani” e, dunque, “junghiani”. A parte Jung e gli incontri di Eranos, dove tra l’altro esiste ad Ascona una sede istituzionale, in quella città mi recai solo come seconda meta. La prima meta era in realtà la cittadina di Montagnola, dove buona parte della sua età matura Hermann Hesse l’aveva trascorsa in quel luogo, in una villa che gli era stata donata da un suo ammiratore. Dopo Montagnola, quindi, mi recai ad Ascona. Strada facendo pensai allora che ad Ascona abitava il professor Boris Luban Plozza, che avevo conosciuto a Fiesole nel novembre del 1998 a un congresso della scuola di psicosintesi di Assagioli. Così passai poco più di una settimana in quei luoghi pieni di risonanze culturali. Varcato la dogana italo-svizzera, mi apprestai a cambiare delle lire in franchi. Ricordo che nel 1999 circolavano ancora le monete delle singole nazioni europee, e l’euro non era ancora in vigore. A parte questo, mi accorsi con piacevole meraviglia che la banconota dei cento franchi svizzeri era stata dedicata ad Alberto Giacometti. Da un lato nella banconata veniva riportato il suo volto magro e scavato, le borse sotto gli occhi, e con quei capelli inconfondibili che aveva brizzolati e riccioluti; mentre dall’altro lato del biglietto era impressa una delle sue più famose sculture Uomo che cammina, in una delle sue versioni, ma secondo una stilizzazione cinetica che fa sembrare che quell’uomo esile della scultura cammini veramente! Infatti nella banconata ci sono quattro rappresentazioni in successione dell’Uomo che cammina e con colori differenti, dal grigio al verde, dal viola al blu, secondo una rappresentazione progressiva dall’immagine più lontana a quella più vicina. Rimasi talmente estasiato che una di queste banconote di cento franchi dedicata ad Alberto Giacometti la tenni con me, e la conservo tuttora dietro il vetro di una cornice che attacco al muro. Per me, di per sé, è un’opera d’arte. Chissà se quella figura d’uomo sottile della scultura, come qualcuno sostenne, non fosse lo stesso Giacometti?

Riassumendo, ero andato nella Svizzera Italiana nell’estate 1999 per vedere il Museo Hermann Hesse a Montagnola. Poco dopo aver fatto il pieno di souvenir di questo scrittore tedesco da me tanto amato, e aver sbirciato attorno in questa piccola località di montagna che è, appunto, Montagnola, mi venne la splendida idea di recarmi con la mia compagna, e in auto, ad Ascona, per incontrare, eventualmente, Boris Luban Plozza che conoscevamo sia io che lei. Ad Ascona riuscimmo effettivamente ad incontrare Boris nei pressi di casa sua, e lui ci accolse con molta cordialità. Questo viaggio in Svizzera fu per me anche la scoperta della banconota di cento franchi dedicata all’artista Giacometti, nato il 10 ottobre 1901 in un villaggio nei pressi di Stampa e di nome Borgonovo, nel cantone dei Grigioni. L’artista morì invece a Parigi l’11 gennaio 1966, ma poi sepolto nel paese natio accanto al padre. Intendiamoci, sapevo di Giacometti anche prima di quel viaggio del 1999 e della scoperta di quella banconota. Vidi però una mostra dedicata alle sue opere solo nel 2000, a Milano, presso la Fondazione Antonio Mazzotta. Fu in adolescenza che scoprii per la prima volta la riproduzione di un’opera di Giacometti sulla copertina del romanzo di Sartre La nausea, negli Oscar Mondadori, nella piccola biblioteca della mia famiglia di origine. La copia del romanzo La nausea che molto più tardi ho comprato, per tenerla tra i miei libri, non so se raffigura sempre la stessa riproduzione, anche perché non ho fatto un confronto della copia del romanzo che era presente dai miei familiari e quella che ho io. In entrambi i casi, però, le due copertine ospitano la rappresentazione di un ritratto a olio, nello stile che fu attribuito a Giacometti per le sue opere mature, quelle che appartengono al suo stile esistenzialista. A proposito, nella copia che ho io dello scritto di Sartre La nausea, in copertina viene raffigurato il dipinto Testa del 1954.

Leggendo la recente e bella monografia dedicata a Giacometti dal Gruppo Editoriale L’Espresso (2005), a firma di Alessandro Del Puppo, ho potuto formulare alcune riflessioni sulla figura biografica dell’artista svizzero e della sua opera. Ho notato come in un artista autentico come Giacometti, l’opera non può prescindere dalle problematiche esistenziali legate al suo autore. In fondo è la tesi che, a partire da Ellenberger, e portata a maturazione nelle opere psicobiografiche di Aldo Carotenuto, afferma l’indissolubile legame che si instaura tra l’autore e la sua opera, soprattutto quando si tratta di psicologi, filosofi, artisti, e che trova nella figura di persona e di artista di Giacometti una conferma su vari punti della sua vita.

E’ interessante notare che Giacometti, in un rapporto spietatamente autentico con se stesso, si accorse di trovare delle difficoltà a riprendere in una scultura la fisionomia di un modello dal vero. Non riusciva a ricavarne niente. Questo succedeva in età giovanile. Giacometti si era già trasferito a Parigi, col consenso dei suoi genitori, portando con se suo fratello Diego. Si dedicò allora agli studi accademici, ma a un certo punto si stancò dell’accademismo e ne prese le distanze. Incontrò vari scultori importanti, tra cui Brancusi. Giacometti, con il fratello, abitava a Montparnasse, il centro della vita artistica parigina negli anni ’20 e ’30 del XX secolo. Conobbe i surrealisti, e in un primo momento si avvicinò alla concezione della loro arte. Tuttavia Giacometti si accorse che le regole che si erano date i surrealisti, tra cui quella dell’ “automatismo psichico”, ossia di eseguire un’opera in modo istintivo, sotto l’influsso dell’inconscio, con lui non funzionava. Anzi, si sentiva bloccato nella sua creatività seguendo delle norme dettate da altri. Così Giacometti iniziò, dopo la morte del padre nel 1934, a prendere le distanze dai dettami surrealisti e decise di dedicarsi all’arte a partire da se stesso, azzerando le influenze esterne. A questo punto, riprese a disegnare e a scolpire dalla figura umana. Diego, molto paziente, gli fece anche da modello per giorni e giorni.

Giacometti si dedicò alla scultura da giovane, ma si rese conto che non era capace di ritrarre un modello secondo le sue fattezze corporee, il suo volto. Così lasciò perdere per lunghi anni, per poi riprendere da dove aveva abbandonato l’esperimento, riprovando e riprovando ancora. Giacometti era consapevole dei suoi fallimenti. Eppure i suoi tentativi avevano qualcosa di eroico, o almeno sapeva che la sua perseveranza, nel provare e riprovare a modellare almeno una testa umana, era di natura tragica, anche se in fondo negli anni della sua maturità artistica riusciva nel suo intento con uno stile originalissimo, almeno in alcune sue teste e in alcuni dipinti di grande maestria e di scavo interiore. Sembra che Giacometti, nei suoi dipinti esistenzialisti, volesse arrivare all’essenzialità della figura umana, a cogliere soprattutto nei volti il senso del tempo, della sua tragedia, il dolore del vivere, se non il paradosso di una riduzione minimalista della figura, ma che in questo minimalismo del ritratto come della scultura, Giacometti facesse emergere quell’essenza dell’anima che va al di là dei volti mascherati della vita quotidiana, volti indifferenti ed estranei l’uno all’altro, ognuno per la sua strada. Quello che dal paradosso della rappresentazione artistica di Giacometti emerse, nell’arte matura, fu, a parere mio, ma soprattutto secondo il commento di Alessandro Del Puppo, l’essenza della fragilità umana.

Le figure filiformi delle sculture di Giacometti – come Uomo che cammina (1947), L’uomo col dito puntato (1947), Grande figura (1947), e da questo momento in poi fino alla fine della sua carriera artistica – sono opere che potrei chiamare di minimalismo esistenziale. Sono opere bellissime e originali, sia le sculture che i dipinti. E’ probabile che questa ‘svolta’ della sua arte, che coincide con lo stile personalissimo con cui diede il suo contributo più autentico alle arti figurative, abbia a che fare con una elaborazione estetico-psicologica di una problematica personale legata alla sua vita sessuale. Del Puppo osserva che Giacometti in seguito a una parotite degenerata era diventato sterile, per cui non sarebbe mai diventato padre. Tuttavia il disagio riguardava anche la possibilità di avere una normale vita sessuale, per cui il rapporto con le donne fu per lui conflittuale e fonte di tensioni psichiche. Fu così un cliente delle prostitute, almeno fino a quando non incontrò Annette Arm nel periodo 1942-45, che nel 1949 poi sposerà.

Le mie poche note riflessive su Giacometti vogliono concentrarsi sulla genesi dell’estetica della fragilità che è presente nelle sue opere mature. Le sue sculture filiformi erano il risultato di una riduzione della materia su cui lavorava – il gesso, il bronzo – fino a ridurla ai minimi termini, al di là dei quali essa si sarebbe sbriciolata, polverizzata. Sembra quasi che le sculture fragili dell’artista svizzero fossero, per così dire, borderline, al limite tra la possibilità di ‘tenere’ o di ‘rompersi’. Ed è proprio questa tensione estetica a cui lo stesso spettatore delle opere di Giacometti è sottoposto che, in fondo, dà alla sua opera un grande fascino e uno spessore di modernità che, nonostante il suo legame con la filosofia esistenzialista, in particolare modo la filosofia di Jean-Paul Sartre situata in un preciso contesto sociale e storico-culturale, la rende tuttora un’opera viva, al di là delle mode d’epoca, che tocca le corde dell’anima e che risuonano, in ciascuno di noi, a modo proprio, in base ai propri vissuti.

Fino al 1934 Giacometti aveva seguito la strada degli altri nell’ambito delle arti figurative. Aveva appreso tante cose. Aveva trentatre anni. Era, quell’anno, anche quello della morte del padre. Questa perdita fu per Alberto un evento non da poco. C’è da chiedersi se il ritorno alla figura umana non sia stato, da quel momento in poi, una sua modalità estetico-simbolica di elaborazione del lutto.

Gli anni ’30-’40 del XX secolo furono anche quelli dell’ascesa del totalitarismo al potere, attraverso Hitler in Germania, Stalin in Unione Sovietica, Mussolini in Italia. Sono anni di angoscia che pervadono di tensioni catastrofiche un po’ tutte le nazioni europee. Credo che l’arte della fragilità di Giacometti non debba fornire una chiave di lettura soltanto delle problematiche intimamente personali dell’artista, ma che debba mettersi in relazione anche con quanto stava succedendo nel mondo di quell’epoca storica. Ricordiamoci che la vita di un ebreo per i nazisti non valeva niente, e che se ne poteva fare a meno al punto di annientarla con il ghigno della derisione verso la vittima. L’estetica della fragilità di Giacometti dovrebbe disporci a riflettere anche sulla nostra stessa fragilità, ma anche sul rispetto di essa.

Oggi viviamo in tempi tristi dove i soprusi, l’aggressività, le prepotenze, gli stupri morali avvengono in tutti i contesti di vita, dalla famiglia al lavoro, dalle strade nei rapporti con le istituzioni. Sembra che la gente sia diventata più ‘cattiva’. L’Ombra di ognuno, ossia quella parte della personalità dove, tra l’altro, troviamo ciò di cui siamo meno fieri di noi stessi, emerge e agisce nei rapporti con gli altri, provocando litigi, comportamenti distruttivi, arrecando ferite all’anima delle persone più sensibili. Sembra che nell’”epoca delle passioni tristi” (Benasayag, Schmit) le persone non si preoccupano di elaborare le parti ‘negative’ della loro personalità, per diventarne consapevoli e non agirle distruttivamente verso se stessi e gli altri, ma anche verso l’ambiente fisico e quello degli aggregati urbani. Dove è andato a finire il rispetto e la gentilezza per le fragilità proprie e dell’altro? Dove è andata a finire la “civiltà delle buone maniere” (Elias)? Perché tutta questa indifferenza, questa freddezza, questa ostilità gratuità tra le persone, negli ospedali e tra gli operatori sanitari, nelle scuole tra insegnanti e scolari, se non tra insegnanti stessi, nei giovani, da parte di coloro che detengono il potere contro coloro che ne hanno di meno o non ce l’ hanno? Questa disumanità che dilaga dappertutto, a che cosa è dovuta?, forse al clima politico che stiamo vivendo attualmente?, alla precarietà economica e del lavoro? Sembra che stiamo vivendo nell’epoca delle relazioni insensibili. Forse una delle ragioni è questa, per cui dilaga il mobbing e le molestie morali negli ambienti di lavoro? Gli studi più recenti sull’aggressività osservano che questa energia può essere può essere utilizzata come “assertività” invece che come ostilità. Nell’assertività si comunicano le ragioni che stanno alla base dei propri comportamenti, senza essere ostili verso l’altro, mentre nell’ostilità si comunica energia emotiva negativa, e non passa il vero messaggio che si vorrebbe esprimere.

La lezione di Giacometti, a parere mio, va al di là dell’arte, diventa una lezione esistenziale, e non è un caso, quindi, che il filosofo Sartre l’abbia adottata nella dimensione estetica della sua filosofia. Nella mostra che Giacometti tenne a New York presso la galleria di Pierre Matisse, Sartre ne scrisse la presentazione al catalogo, un lungo scritto che chiamò La ricerca dell’assoluto. Era il 1948. Oggi l’artista svizzero ci insegna una lezione etica sul rispetto della fragilità, naturalmente al di là delle sue intenzioni e secondo un’ermeneutica che tiene conto dello ‘spirito del nostro tempo’. Sono passati ormai parecchi anni da quando lo psicoanalista Guntrip, allievo di Fairbairn e Winnicott, scriveva che occorre rispettare le fragilità proprie e degli altri, e che la civiltà dell’”Io forte” aveva qualcosa di sbagliato nella sua ‘muscolosità’ narcisista. Le sue parole si sono rivelate profetiche. Nella “cultura del narcisismo” (Lasch) l’uomo ha rimosso la sua essenza gentile, la dimensione religiosa della sua mente, mostrando derisione verso le fragilità degli altri, e rimuovendo le proprie. Giacometti divenne un’artista della fragilità umana ribellandosi alle convenzioni accademiche e al conformismo di gruppo, attraverso un ritorno verso se stesso, alla propria autenticità di essere umano. Oggi il narcisismo è un conformismo di massa basato sul conflitto sociale mascherato e che ricorre alla modalità ambivalente e falsa del comportamento ipocrita, che nella versione delle organizzazioni sociali del lavoro si mostra come ‘logica’ dei gruppi di potere, e che stritolano il singolo che non si adegua secondo il copione della compiacenza al più forte. D’altra parte, ogni epoca storica ha i suoi limiti, non dura ‘per sempre’, come del resto hanno i loro limiti temporali gli uomini che danno un’impronta, nel bene come nel male, al periodo storico in cui vivono. Purtroppo l’immaturità dei nostri tempi è caratterizzata anche dal fatto che non si medita a sufficienza sulla propria morte a venire, ma si ride delle disgrazie e della morte altrui.

Thomas Hobbes guardando dalla sua tomba lo scenario triste dell’attuale società occidentale – che dai sociologi riceve varie definizioni, tutte parziali, ma che colgono delle tendenze in atto, parlando di “società sotto assedio” (Bauman), “società individualizzata” (Bauman), “società dell’incertezza” (Bauman), o anche “società del rischio” (Beck) – se la ride, riaffermando il suo principio politico homo homini lupus. Non credo che l’autore del Leviatano potrà ridere ‘per sempre’. La realtà sociale cambia, anche se lentamente. Nella nostra epoca di nichilismo sociale possiamo chiederci: come sarà domani? La risposta del nichilista potrebbe essere del tipo: ‘per adesso meglio un po’ di riserbo’. La risposta è allora, come dicono gli inglesi, ‘no comment!’ E’ in fondo questa la filosofia di vita che va per la maggiore nel nostro ‘spirito del tempo’ basato su un cinico “disincanto del mondo” (Weber), cioè quella ‘filosofia collettiva’ in cui la dimensione temporale ha eclissato il futuro. Se il presente è vuoto, allora non potrà porre le basi progettuali di domani. Sarà inoltre bene non dimenticarci del passato, per non ripetere errori già accaduti nella storia dell’umanità. D’altra parte, se il presente è vuoto, anche il futuro lo sarà! In tal caso, il futuro sarà una ripetizione del presente, compreso il suo dolore. Forse abbiamo bisogno, oggi più che mai, di un po’ di U-topia, ossia di usare la nostra immaginazione per dare un corpo al futuro a partire dal presente. Qualcuno consiglia di sviluppare una “visione personale”. Mi sembra una cosa sensata. Certo, se ci proviamo a dare al Non-luogo dell’U-topia un luogo dove possa concretizzarsi, forse la cosa si fa, ma con la partecipazione del prossimo, anche in gruppi come piccole comunità, l’esperimento è meglio ancora. Tuttavia questi gruppi dovrebbero seguire un’etica del rispetto delle fragilità reciproche e una reciproca valorizzazione della creatività di tutti, anche se nelle società post-moderne di oggi l’invidia distruttiva e la competizione sleale dello sgambetto sono due inconvenienti che caratterizzano le relazioni insensibili.

Il fascino di Alberto Giacometti, artista della fragilità umana e della realizzazione minimalista delle sue opere scultoree, credo che sia da individuare nel suo stile di vivere semplice, in mezzo alle opere che lui creava nel suo atelier, impolverato in viso, nelle mani, nei suoi vestiti di gesso. Chiediamoci pure qui se siamo di fronte a quell’ossessivo modo di vivere che lo psichiatra Vittorino Andreoli definisce di “minimalismo esistenziale”, cioè l’”andare al minimo”, dove la persona si ritaglia uno spazio di sopravvivenza e non vuole che esso sia invaso, altrimenti entra in angoscia? Il mio modo di parlare di “minimalismo esistenziale” non è certo quello della psichiatria di Andreoli, ma si riferisce a uno stile di vita che, in fondo, non è raro negli artisti. Credo che il pittore Morandi fosse un altro personaggio ‘minimalista’, sia nella sua pittura di bottiglie solitarie, che nel piccolo appartamento dove lui viveva. Alberto Giacometti in fondo viveva di poco, ma di molta autenticità, non nascondendo a se stesso e agli altri i suoi fallimenti artistici. E’ però da quei fallimenti che nacque la sua opera eccelsa, soprattutto dalla onestà con cui si impegnava, per così dire, nella consapevolezza di quel ‘fallire’ che era diventato la prassi di un’etica libertaria e del ritorno a se stesso da cui aveva preso le mosse la sua arte esistenzialista. Questa onestà etica di Giacometti mi fa venire in mente la figura del filosofo Ludwig Wittgenstein, un altro personaggio ‘minimalista’. Fin dalla giovinezza, Wittgenstein osservava, nei suoi Diari segreti, che per diventare un buon filosofo e scrittore di filosofia doveva prima conquistare la dignità di essere uomo. Sia Giacometti che Wittgenstein avevano dei problemi personali che segnarono ognuno di loro. Del resto, un discorso simile si potrebbe fare con Soren Kierkegaard, che a causa di quella che chiamò “la spina nella carne” rinunciò al fidanzamento con Regina Olsen, dedicandole, tuttavia, la sua opera di scrittore. Di fronte a quelli che Giacometti considerava i suoi ‘fallimenti’ poteva, alla fine, smettere di fare l’artista, ma proprio quei ‘fallimenti’ li considerò parte del suo percorso formativo, rimanendo fedele alla sua vocazione.
titolo: Alberto Giacometti: l’artista della fragilità esistenziale
autore: Giuseppe Morgana
argomento: Psicologia e Arte
fonte: Vertici Network
data di pubblicazione: 14/03/2005


Risposte

  1. Bene ora sono piu tranquilla sapendo che i fallimenti artistici , aiutano a crescere , da una pittrice con simpatia


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